Si racconta che fossero veramente tanti, una moltitudine, considerando che il luogo, testimone delle loro imprese, non era una metropoli, bensì un piccolo e ameno paese, pigramente sdraiato nella campagna veneta, agli albori degli anni '70.
Erano gli orfani del '68: capelloni, frickettoni, radicali, anarchici, femministe, fans di Lennon e di Che Guevara, mistici orientalisti, ambientalisti, pacifisti, atei, beats, amanti dei paradisi artificiali, amici degli animali, cugini di campagna e tanti altri.
Questa informe nebulosa, comparsa in tempi non molto lontani, era nata da incontri casuali, affinità elettive, voglia di stare insieme e altro ancora, e tenuta unita da un vago ideale comune e in seguito anche da profonda amicizia.
Il punto di ritrovo di questo etereogeneo amalgama, scelto per chissà quali strane alchimie, era un antico bar del centro adiacente alla canonica, di lato alla chiesa, sotto l'ombra del campanile, dal nome significatamente evocativo: “bar dei preti”.
Una situazione a dir poco bizzarra, tanto da sembrare più un soggetto da teatro del paradosso o emblematica finzione letteraria che reale e fortuita coincidenza.
Il diavolo e l'acqua santa, don Camillo e Peppone, convivevano in pochi metri quadri e non sempre nel segno della pace.
Dal pulpito della chiesa don Palanca, l'anziano prevosto, lanciava scomuniche, anatemi e divini fulmini purificatori contro le anime dannate dei dirimpettai, dalle selvagge creature arrivavano sghignazzanti risposte triviali e blasfeme.
Si era così creato uno stato di guerriglia permanente, che aveva i suoi momenti più elevati in deliranti attacchi dalle pagine del bollettino parrocchiale, seguiti da audaci azioni di sabotaggio tipo: adesivi con “don Palanca no grazie” o raid notturni prefestivi per bloccare con catena e lucchetto, l'accesso dei fedeli alle sacre funzioni.
Le cronache di quelle innocue scaramucce non riportarono mai notizie di morti e feriti né di vincitori o vinti.
Coabitava nello stesso locale anche un'altra nutrita schiera di personaggi altrettanto originali: buontemponi di facile battuta, nottambuli insonni e filosofi, artigiani, partigiani, malinconici bevitori da quotidiano record etilico, osservatori, conservatori, spioni un po' patetici.
La star indiscussa di questo circo stanzial-esistenziale, gran equilibrista, fantastico domatore, spiritoso clown, speaker e direttore d'orchestra, era Armando, il perfetto prototipo del barista di antica memoria.
Lui era un raffinato affabulatore, un prezioso confidente di anime perse, un diplomatico paciere super partes, ascoltava giovani e vecchi e per tutti aveva una parola, un motto spiritoso, un'arguzia da uomo di mondo, una sottile graffiata di sarcasmo.
Sopportava, con stoica rassegnazione, show di attori e comparse, che, nel suo locale, recitavano tragicomiche pieces: dall'overdose nei cessi di stile metropolitano ai monologhi surreali di qualche avventore doppato, dalle domande inquisitorie del curioso di turno alle periodiche irruzioni della benemerita che avvertita da solerti cittadini perquisiva, mitra spianati, tutte le teste calde presenti.
Il bar era il centro focale di queste vite intrecciate, il sacro luogo laico della comunione e della beatificazione e Armando era il gran sacerdote del rito, l'imperturbabile ciambellano del ballo mascherato.
La sua origine contadina gli conferiva un'innata saggezza e un mistico fatalismo.
Osservava il caotico andirivieni con leggera sufficienza e tolleranza, non parteggiava per nessuno mantenendo sempre una certa imparzialità nei giudizi.
Era il presidente di tutti i suoi clienti.
La fama del posto intanto cresceva.
Da paesi lontani e vicini giungevano nuove adesioni e la tribù diventava sempre più allargata e visibile.
Genitori apprensivi portavano i loro pargoli a vedere quel variopinto zoo come terapia d'urto contro eventuali sbandate adolescenziali.
“Tajeve i cavei e n'dè lavorare” era l'adagio più in voga tra i meno attenti all'evoluzione dei costumi.
Il panorama sociale quindi era un po' stretto di vedute e spesso anche ostile all'operato degli zazzeruti contestatori.
Invece, sfatando dicerie e abusati luoghi comuni, molti di questi giovani si davano un gran daffare per ritrovare sé stessi e agire con consapevolezza nella società, che speravano cambiasse al più presto.
L'ospitalità e la solidarietà erano principi sacrosanti rispettati da tutti: amici in difficoltà, ragazzi scappati da casa, stranieri di passaggio, venivano accolti e aiutati collettivamente.
Era una piccola palestra di democrazia diretta, senza leader, capi, gregari, dove ognuno dava quello che poteva o voleva, per la causa comune.
Venivano fatte, dentro e fuori il bar, interminabili discussioni su tutto, Ore di concitate assemblee spontanee per decidere come organizzare una festa, una manifestazione pro, un volantino contro, una scritta sui muri, un pic-nic con chitarre panini e Bob Dylan.
Il tutto seguito dall'occhio vigile del nostro eroe, che, visti i tempi, voleva evitare di esser coinvolto in storie troppo pesanti, anche se poteva essere d'accordo con molte delle idee che quei giovani proclamavano con la spavalderia della loro età.
Oltre a dover tenere a bada il gruppo di rivoltosi sempre in fermento, i fronti di combattimento con cui era costretto a misurarsi erano anche altri: l'inviperito reverendo locatore che non mancava mai di ricordargli le nefandezze dei suoi clienti, i benpensanti scandalizzati dalle ignobili provocazioni di quel gruppo di scalmanati, le ire della sua signora che, suo malgrado, si era trovata in quella spinosa situazione, che a lei non andava assolutamente a genio.
I sofisticati equilibrismi che sfoggiava per rabbonire e mediare, erano magia pura, funambolismo a cinque stelle.
Poi, come in tutte le vicende umane arrivò la fine. Il bar dei preti cambiava gestione e
per fatale destino incrociato, la partenza di Armando, coincise con la graduale ma inesorabile diaspora del popolo degli alternativi ,persi da allora in poi in mille rivoli e vicende personali.
Ma l'avventura vissuta aveva lasciato in tutti segni di ferite indelebili, di miracolose guarigioni e di illuminanti intuizioni.
Armando uomo semplice e saggio, maestro di bar e di vita honoris causa, testimone oculare di una breve stagione di grandi ideali e confortanti illusioni, resta un icona singolare di quel momento.
Storie lontane ormai dimenticate o semisepolte tra i confusi ricordi dei pochi fortunati sopravvissuti all'ecatombe di corpi e di menti di una generazione alienata e ribelle.
Storie dell'altro secolo, anzi, dell'altro millennio.
|