3 RACCONTI di Luigi (Gigi) Artusi
 
 

ABELE, BELLOCCIO...QUASI ONOMATOPEICO

 
 

Abele, belloccio, aitante, obbediente alle leggi, allevatore fortunato, può permettersi di sacrificare un agnello una tantum, tanto ne ha tanti. Ha capito che tenendo buono il capo, ha tutto da guadagnare. Veste sempre in pelle, elegante nella sua semplicità. Gli hanno dato un nome dolce, quasi onomatopeico con gli ovini che alleva. Con molta serietà si dà da fare per riparare i danni, che una madre troppo curiosa e un padre imbelle gli hanno procurato con le alte sfere. Questo senso di colpa lo fa essere molto pio e devoto col suo potente padrone, perché spera di espiare la tara e diventare così il prediletto, con tutti i benefici che ne conseguono. Detesta pacatamente il fratello maggiore, che trova rozzo e privo di armonia.

Caino, tarchiato, scuro di pelle, sguardo torvo, un nome già programmato per una vita da cani. Ha avuto in eredità parecchi ettari di terreno, buona parte roccioso o ricoperto di foresta ex Eden declassato. Deve lavorare e sudare, altra eredità dei suoi incoscienti genitori. Tutto il giorno chino sulla terra, per qualche tubero striminzito. Si sente defraudato e quindi non ha nessuna voglia di porgere le onoranze al padrone. Cova un sordo rancore per il fratello più fortunato. Sa della storiaccia di sua madre con il serpente, ma non la considera una grave colpa, anzi negli anni, giustifica sempre di più il fatto, trovandolo un sano gesto di ribellione alla monotona felicità dell’Eden. Non ha mai letto, perché non c’è niente da leggere, quindi è abbastanza ignorante. Vede raramente il fratello e quasi esclusivamente quando questi, sconfina coi suoi armenti nei campi che lui, faticosamente ha lavorato. Allora diventa furioso, chiede risarcimenti, pretende scuse, sputa, impreca. In generale Abele, che non è stupido, gli da in cambio qualche agnello o una pelliccia di seconda mano e riesce a placarlo con la sua voce suadente e con argomenti che ha ben imparato, essendo sempre in contatto con il grande vecchio.

Quella mattina, Caino, si era svegliato con un sapore amaro in bocca e con tutte le ossa indolenzite. La sera prima, un po’ per fame, un po per curiosità aveva mangiato delle bacche mai viste prima d’allora e, durante la notte aveva fatto sogni, anzi incubi, che mai aveva fatto. Aveva visto sua madre e suo padre cacciati dall’eden con una spada di fuoco, si era visto bambino, già bruttino, con il fratello più piccolo, bello, simpatico, e preferito da tutti per il suo carattere. Ci sapeva fare, il fratellino, si faceva amare con quel sorriso, gli veniva sempre perdonata ogni mancanza: Caino, l’eterno imbronciato, era quasi sempre il colpevole. Poi si era visto vecchio, curvo, chino sulla terra a lavorare senza speranza, e Abele che passava, eretto nella persona, luminoso, seguito da donne bellissime e bimbetti felici con un sorrisetto di scherno sulle labbra,  mentre portava due magnifici montoni addobbati a festa per il sacrificio, e il vecchio padrone, lusingato che s’intratteneva con lui, parlando di cose troppo profonde per poterle capire.

Il risveglio quindi, fu traumatico: prostrato dalla notte agitata, le membra pesanti e la testa in delirio, a fatica scese dal giaciglio di sassi e paglia e trascinandosi con gambe malferme andò verso il pozzo per bere dell’acqua e lenire il fuoco che lo bruciava. Ma, attorno al pozzo, una moltitudine di pecore, capre, asini, agnelli gli sbarrava la strada: Abele era là, solare, felice, che pescava l’acqua dal pozzo ed abbeverava le sue bestie, tessendo lodi al suo Signore per la grande fortuna a lui concessa. Qui si compie l’ineluttabile misfatto, il fratricidio, la vendetta, l’assassinio efferato. La dannazione eterna dell’uomo! Nefanda storia questa, di rancore e di possesso, di presunzione e di odio, destinata a passare all’onore delle cronache, pietra miliare del destino sinistro dell’umanità. Perché Caino hai ucciso il fratello? Perché l’invidia e la gelosia ti hanno accecato? Perché non hai accettato il tuo destino da sfigato, non hai accettato quell’originale ingiustizia che ti faceva il prototipo degli ingrati? Eppure eri libero, libero di lavorare, di sudare, di pensare, di agire, di ingraziarti il capo con un po’ più di generosità.
Ti sei messo in testa strane idee di giustizia e ti sei cacciato in un guaio serio, macchiandoti del sangue di un tuo simile. Certo anche tu Abele non hai fatto un granché per evitare questo finale, mai un autocritica, mai un po’ di umiltà con il fratellastro, solo davanti al capo, chinavi la testa ossequioso. Convengo che eri gentile, buono e raffinato. Fortunato ma anche un po’ ruffiano e forse anche egoista con i tuoi simili. Potevi qualche volta, dividere le tue ricchezze anche con il tuo iellato congiunto, che magari, avrebbe potuto addolcirsi e forse cambiare quell’atteggiamento da bestia bastonata, che non giovava a nessuno dei due.

E il grande capo, così saggio, magnanimo, giusto, che vi conosceva entrambi, non poteva con un solo gesto concedere un po’ di grazia al rozzo contadino! Sembra invece, la sua, una compiaciuta mossa per dimostrare la protervia del bruto e attirare simpatia per la vittima, buona, pia ed incolpevole.
Sicuramente l’assassino, il violento ha sempre torto, almeno nella maggior parte delle culture del pianeta, ma a volte, cercare i motivi che hanno armato la sua mano, potrebbe servire per capire l’origine della sua follia, e quindi tentare di evitare lo scatenamento di questa sua latente e funesta natura. Carnefice e vittima, spesso hanno ruoli intercambiabili, l’incontro casuale o ineluttabile fra i due da luogo a incontrollabili reazioni a catena senza soluzioni logiche o eticamente ineccepibili. Innocenti agnelli sacrificali sull’altare di un Moloc assetato di potere, di odio, di vendetta! Boia convinti della giustezza delle loro azioni, infiammati da presunzioni, pronti anche a morire per queste. Tragedia senza fine, brevi, illusori periodi di tregua, in cui l’uomo depone i suoi ferali giocattoli, pronto poi a tirarli fuori alla prima occasione. Propensione all’autodistruzione, DNA rissoso, ciclica idiozia infantile.

Quanti fragili, incolpevoli martiri di questo crudele gioco, quanti fragili, orrendi persecutori in questo orrendo ripetersi. Dovremmo assolutamente, ingenuamente, umilmente, utopisticamente andare contro questa nostra sciagurata natura.

Luigi (Gigi) Artusi - 2000   
 
 
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       Armando, secondo racconto