Giuseppe
Bongiorno: "No problem"
12 settembre 2010
A prima vista i lavori di Giuseppe Bongiorno appaiono divertenti: quelle figurine ritagliate che interagiscono tra loro e sembrano giocare con i vuoti, attraverso cui filtra lo spazio circostante che diventa così parte dell’opera; quel colore spesso caldo e acceso, a volte irriverente; il forte senso di movimento, destra e sinistra, dentro e fuori, che coinvolge lo spettatore in modo dinamico.
Poi ci si sofferma a guardarle meglio, queste opere: plastiche e tridimensionali (è riduttivo chiamarle “pitture”), favolistiche e trasognate, ci accompagnano con una leggerezza apparente a riflettere su temi che leggeri non sono, fornendo una diversa chiave di lettura, rendendoli a volte di più facile comprensione, senza però mai banalizzarli.
Osservando bene si scoprono rimandi ad altri lavori, immagini ricorrenti, simboli: appartenenti alla cultura occidentale e a quella orientale, al presente e al passato, dall’origine della civiltà fino ai giorni nostri, ai testi sacri e alla letteratura o all’arte, si mescolano e dialogano tra loro facendo percepire una forte spiritualità, non appartenente ad alcuna fede bensì universale e laica. A volte appartengono alla nostra quotidianità, oggetti conosciuti dell’immaginario collettivo che acquistano un nuovo significato quando l’artista li utilizza per raccontare, denunciare, ricordare.
Molti sono i riferimenti a fatti di attualità: i massacri di Beslan, gli attentati di Londra, il caso di Piergiorgio Welby, sono citati in modo allusivo e mai retorico. No ethical state ha come protagonista Eluana Englaro: un caso doloroso, cui presero parte le Istituzioni (simboleggiate dalle due colonne tra le quali la ragazza, nutrita con un imbuto, sembra essere imprigionata), la Chiesa (le scarpette rosse del Papa), i politici (le scarpe con tacco, simbolo di tutti quei capi di stato che dalle loro altezze artificiali calpestano i diritti altrui), la televisione (la corona-antenna, simbolo della manipolazione delle menti?). Queste opere ci spingono a pensare, il loro significato non è mai immediato, sono pregne di denuncia e critica: alla violenza, alla guerra, al maschilismo, all’ipocrisia e al vuoto formalismo di una Chiesa che sembra aver perso la propria strada, a tutte le forme di intolleranza e prevaricazione, a tutto ciò che lede il diritto di libertà dell’individuo. Con arguzia ed ironia accompagnano lo spettatore verso una riflessione che vada oltre il semplice godimento estetico, sono commento alla condizione umana di tutti i secoli, e comunicano una prepotente speranza di unione, di armonia: pieno e vuoto, maschile e femminile, bene e male, luce ed ombra, non sono altro che diversi aspetti di una stessa universalità.
Il tutto è supportato da una ricerca formale che ha spinto Bongiorno ad uscire dalla forma quadro, dalla rigidità di ogni schema tradizionale. Le figure o le parole ritagliate (altra importante presenza, la parola, la scritta) delle sue opere fluttuano libere nello spazio circostante avviando così un processo di interazione ed “interscambio”: emozioni, sensazioni, la vita stessa riempiono il vuoto tra le forme, che diventa “nuovo pieno”. Il “vuoto nella forma o forma nel vuoto”, come lo definisce l’artista, non è il vuoto di Fontana, né quello dell’incognito, bensì richiede condivisione, la partecipazione dello spettatore, vero co-protagonista dell’opera in cui inserisce ricordi, riflessioni, significati propri ed originali, ma anche “la sua cultura, il suo spazio, il suo muro”. Ricca di contenuti sempre attuali, quella di Bongiorno è una forma “sociale”, indissolubilmente legata alla vita dell’umanità. Altro interessante aspetto del lavoro di Giuseppe è il suo rapporto con il colore: elemento essenziale di molte sue opere, si è ultimamente rarefatto, a poco a poco, fino a scomparire quasi del tutto. Non è una rinuncia, si affretta a tranquillizzarci, bensì una conquista, un nuovo passaggio, un nuovo step di una ricerca che continua a sorprenderci e ad incuriosirci, in attesa delle prossime novità.
Nicoletta Consentino, giornalista
(luglio 2010)
|