VERITÀ E RICERCA NELLA PRATICA TEOSOFICA
di Stefano Lazzarich
 
     
  Premetto subito che nelle righe che seguiranno cercherò di parlare di metodica della ricerca e non dei suoi contenuti, anche se sono consapevole che fra i due diversi approcci le differenze sono più spesso ponti piuttosto che barriere.
Sono molto contento di aver dovuto preparare questo intervento; il farlo per me è stata un’esperienza, una ricerca, il riuscire a vivere (forse solo mentalmente, ma direi non solo) ciò di cui parlerò, prendendo man mano appunti da elaborare in un secondo momento. Un cortocircuito nel quale si parla di ciò che si vive … parlando di ciò che si vive … etc…etc…etc…
Ciò che seguirà è il risultato di un “viaggio” nel tema senza avere delle cose da dire precostituite; devo allora affermare di averle “studiate”? Forse, o forse cercate, o forse solamente vissute. Alla fin fine sono semplicemente andato … e ora sono qui: la VERITA’ di sentirsi parte di qualcosa che ti trascende, e GIOIRNE!
Ciò che seguirà è un po’ come nei libri di Shankaracharia: cinquanta pagine di introduzione per venti pagine di commentari relativi a dieci versetti dove si afferma che il Tutto, alla fine, è compreso in due sole righe…per chi sa leggere.
Ritengo sia però necessario a questo punto stabilire alcune definizioni e soprattutto dei punti di vista, tanto per capirsi (o almeno non fraintendersi più di tanto) quando userò alcune parole chiave.
Per esempio “Teosofia” (da cui l’aggettivo “teosofico/a”) viene spesso usato per indicare tutto un insieme di libri, affermazioni, metodiche, posizioni, verità, opinioni,etc. riguardanti la Conoscenza e lo studio della Conoscenza di Dio (in tutti i possibili sensi tale frase possa essere interpretata). Pur riconoscendo l’assoluta validità di tale interpretazione io preferisco invece intendere con tale termine tutto ciò che comprende i vari approcci particolari al tema (cristiano, islamico, indù, neoplatonico, buddista, scientifico, filosofico o altro) ma che non può essere compreso (e quindi limitato !) da nessuno di essi né da nessun altro.
Nella mia vita ho sempre cercato ed apprezzato i consessi dove veniva valorizzato questo secondo punto di vista, anche se il primo non ne è l’opposto ma solamente una certa “cristallizzazione”.
Lo stesso titolo Teosofia Contemporanea dato ad una sua pregevole opera dal prof. Renato De Grandis presuppone la possibilità di una sorta di ampliamento teosofico del precedente canone teosofico, a formare un nuovo canone da superare a sua volta per ampliamento e non per banale contrapposizione, e così via , senza fine, rincorrendo la pentola d’oro della Verità ultima che si trova alla fine dell’arcobaleno, cioè dappertutto ed in nessun posto allo stesso tempo, dipende da dove ci si trova.

Anche da un punto di vista più propriamente etimologico con Theos-Sophia si può più che correttamente intendere quel corpo di verità che costituiscono la conoscenza (delle cose ) di Dio, ma se non ci si ferma al primo e più superficiale significato legato all’uso quotidiano delle parole conoscenza e Dio, ci si può allora rendere conto che dietro ad esso c’è tutto un universo dove Theos-Sophia significa …….. qualcos’altro, l’essere (=conoscere) in Dio, il cercare (perché si conosce, cioè si sente) Dio. Va comunque ben specificato che in tutte le precedenti ricorrenze la parola “Dio” è solo un simbolo comodo per … Quello, il Theos!
Ovviamente le diverse visioni che le differenti interpretazioni della parola Teosofia possono comunicare influiscono direttamente su ciò che si può intendere per Pratica Teosofica, essendo quest’ultima semplicemente il mettere in pratica (=azione!) l’essere teosofo, o più semplicemente il vivere la Teosofia.
Continuando nella disamina dei termini usati nel titolo del presente scritto mi voglio ora soffermare sul più “pesante” e solo apparentemente semplice: Verità. Prescindendo da difficili equilibrismi concettuali, che almeno per il momento preferirei tralasciare, direi che verità è ciò che è conforme a ciò che E’, nel senso che tale concetto nasce dal confronto fra ciò che E’ e ciò che la verità afferma essere. Confronto fra forme ovviamente (come d’altronde sottolinea l’aggettivo con-forme) che quando ha esito diciamo “positivo” non può che affermare una sorta di isomorfismo fra Ciò che E’ e ciò che è vero, non una sostanziale identità come quasi sempre superficialmente e comodamente si preferisce credere!
Ciò non ha nulla a che fare con la presenza (fortuita, voluta o inevitabile che sia) di un qualsiasi genere di “falsità” che possa inquinare e/o limitare l’ipotetica perfezione di una data verità, ma è solo la constatazione che qualsiasi Verità (formalizzata a livello umano!) non può che essere relativamente (= umanamente) assoluta, non può cioè che essere la proiezione di ….(Theos?) a livello umano. Sicuramente la Verità umana è qualitativamente e strutturalmente “diversa” dalla Verità angelica o dalla Verità animale (per riconoscerle tutte come Verità bisognerebbe essere sul piano che tutte le comprende!), ma seppur con infinitesime differenze (infinitesime solo se confrontate con quelle intercorrenti fra le grandi categorie precedentemente considerate) dobbiamo giocoforza affermare che la Verità di A non è mai esattamente quella di B, almeno fino a che A e B sono diversi (affermazione persino ovvia se interpretata alla luce dei precedenti concetti di “proiezione” e “confronto”). Tutto questo mio discorso può sembrare l’essenza stessa del relativismo, una specie di negazione della possibilità di pervenire ad una Verità condivisa, ma non è così. Il fatto è che spesso per aggirare l’ostacolo si assume un paradigma di riferimento particolare (= privilegiato) come il “migliore” oppure il più “vero”, dopodichè studiare (quando non addirittura ricercare!) assume semplicemente il significato di impossessarsi di tale paradigma.
Vorrei invece testimoniare una mia reale esperienza di Verità condivisa, esperienza che a parte i contenuti e le argomentazioni specifiche si potrebbe schematizzare con: “A dice che x è bianco; B dice che x è nero; A dice che B ha ragione; B dice che A ha ragione”. Ecco la Verità vera! A e B, assieme, in quel momento erano la Verità!

Forse sembrerà incredibile ma quanto detto sopra è veramente successo, seppur in un contesto di particolare … chiarezza e direi anche onestà (non trovo un termine migliore per indicare l’atmosfera psicologica di quel momento, termine che comunque va inteso libero da qualsiasi seppur minima sfumatura morale) . Ecco allora come superare i limiti di un comodo relativismo: aggiungergli di pari passo l’Onestà (sempre nel senso citato), senza comunque alcuna presunzione di poter mai cogliere l’inafferrabile, ma ottenendo così un sano Relativismo col quale poter veramente avanzare e non semplicemente girare in tondo, come spesso si fa accontentandosi di allargare il cerchio che si percorre riempiendolo di nuove “verità” .
Reputo inoltre opportuno ricordare che ogni conoscenza (speculativa) è comunque relativa, anche quella frutto di un’esperienza personale diretta che dipende comunque almeno dallo specifico punto spazio-temporale in cui il soggetto si trova (anche a voler prescindere dal particolare paradigma interpretativo attraverso il quale l’esperienza viene concettualizzata). Forse possono esistere tipi diversi di conoscenza liberi da tale caratteristica intrinseca (fusione soggetto-oggetto, identificazione a-razionale, o altro) ma anch’essi ricadono nel relativismo non appena si cerca di trasmettere speculativamente (=verbalmente, razionalmente) i contenuti di tali esperienze.
Da tutto quanto precedentemente detto, ridetto e puntualizzato discende che fino a quando ci si limita a confrontarsi con verità limitate (cioè relative ad uno specifico seppur incommensurabilmente vasto campo di studio) il concetto di Verità già dato (conformità fra ciò che è e ciò che si afferma) può stare in piedi, almeno con le precisazioni e le ritarature di volta in volta necessarie che permettono di giungere a poter affermare la Verità di qualcosa all’interno di un certo paradigma. Se però si vuole stirare tale concetto al limite, forzandolo o con l’ampliamento indefinito del “qualcosa” a cui si riferisce o con l’indefinita riduzione-semplificazione del paradigma di riferimento, si ottiene solamente che ad un certo punto esso cade, incapace di reggersi in piedi svuotato di quei pilastri che pur non detti ne costituiscono lo scheletro portante.
Consideriamo per esempio , a tal riguardo, la prima proposizione fondamentale della Teosofia con la quale H.P.Blavatsky nella sua Dottrina Segreta afferma l’esistenza di “un Principio Onnipresente, Eterno, Illimitato, Immutabile sul quale qualsiasi speculazione è impossibile poiché è al di là delle capacità della mente umana e non potrebbe essere ridotto che a espressioni verbali (=mentali, nota dello scrivente) o comparazioni”. Ora se prendiamo in considerazione la “Verità” di tale Principio o dell’affermazione della Sua esistenza ci accorgiamo che essa è per la Sua stessa natura indimostrabile, al di fuori com’è della possibilità del confronto di cui si parlava prima. La sua Verità, che di sicuro né provo né desidero mettere in discussione ed anzi sottoscrivo, è quindi un fatto soggettivo nel senso di appartenente all’evidenza dell’esperienza soggettiva, e quindi contestabile (al di là delle parole usate e della loro condivisione) eventualmente solo all’interno dell’esperienza stessa, se condivisa, o di un condiviso paradigma esperenziale etichettato ed accettato come reale. Una qualunque Verità riguardante cose per loro natura sfuggenti ad una definitiva misura-confronto, una volta formalizzata e quindi cristallizzata in una forma definita, per me “non è vera” fino a quando non fa parte (=non diventa parte) della mia vita, della mia esperienza. Posso eventualmente “crederci”, ma se non è parte di me resterà sempre qualcosa di solo relativamente vero. E non è vero che un relativismo più condiviso è meno relativismo di uno poco condiviso, qualunque sia la differenza quantitativa fra le dimensioni dei due consensi: l’unica sostanziale differenza, l’unica reale, è quella fra relativismo e nonrelativismo, che non significa per niente assolutismo. Tanto per accennare a ciò che intendo con nonrelativismo ricordo che, una volta ammessa la possibilità (rarissima!) di sviluppare uno stato coscienziale nel quale la mia vita significa la vita dell’intera umanità, qualsiasi cosa sia vera per me è ovviamente vera per tutti, è sì relativa a me ma è al tempo stesso nonrelativa venendo a mancare la possibilità stessa di un diverso relativismo (è utile ricordare che relativismo implica dualità, o almeno la sua possibilità).

Resta comunque il valore e la verità (relativa) delle esperienze personali oneste dei singoli ricercatori, oneste sempre e solo nel senso già specificato, ed è proprio basandosi consapevolmente sul valore di tali ricerche che possiamo proseguire nella nostra analisi senza sentirsi sminuiti dai suoi limiti intrinseci né, per ovviare a ciò, cercare stupidamente di ignorarli o peggio ancora negarli.
Precedentemente abbiamo considerato come l’aggettivo “teosofica” colora differentemente la pratica, e seppur sommariamente abbiamo visto che i diversi significati che associamo alla Teosofia influiscono anche pesantemente su tutto quanto ad Essa si collega. In che modo invece la ricerca viene caratterizzata dall’essere “teosofica”? Prima di provare a rispondere a tale domanda ritengo necessario sottolineare che le possibili risposte sia determinano che sono conseguenza di visioni del tutto diverse dell’intero problema. Comunque, secondo me, le diverse risposte e le loro conseguenze non sono reciprocamente contraddittorie, ma semplicemente esplicitano diversi punti di vista che possono, se approcciati con mente aperta, gettare luce e spunti interessanti anche sugli altri, magari a torto e superficialmente considerati incompatibili.
Tornando alla precedente domanda mi sembra che, a parte le innumerevoli sfumature, le risposte possibili siano essenzialmente due:
a) ricerca teosofica significa cercare di scoprire (e/o ottenere) ciò che non si sa (e/o ha) adesso in ambito teosofico, così come si ricerca qualcosa in altri ambiti, presupponendo che ci sia qualcosa da scoprire, che qualcuno l’abbia scoperto e che per la stessa strada anche noi lo scopriremo;
b) ricerca teosofica significa cercare di vivere (=mettere in pratica) ciò che E’, che non è da scoprire ora più di quanto non sia da scoprire poi o non sia mai stato da scoprire in un passato più o meno lontano.
In questa seconda visione, forse a prima vista molto diversa se non “alternativa” all’usuale primo significato dato alla parola ricerca prima ancora che essa sia teosofica, è essenziale ribadire e tenere sempre presente che non solo ciò che è, ma anche tutto ciò che potrebbe essere, è ciò che veramente E’ !!!

Nell’Essere c’è abbondante spazio sia per tutte le possibilità che hanno trovato realizzazione effettiva e sia per quelle che invece non l’hanno avuta, e pur prescindendo dall’ impossibilità in molti casi di poter sapere con assoluta certezza in quale delle due situazioni ci si trova, resta comunque il fatto che la semplice possibilità, la semplice ipotesi, ha una sua realtà almeno nell’ambito (=mondo) mentale. A riprova di quanto detto, per esempio, voglio far notare che il passato storico, quello cioè che viene riconosciuto come tale (secondo certe logiche-prove-metodologie ben definite) dalla stragrande maggioranza degli uomini, quello che a volte viene riscritto a causa di nuove scoperte ed altre volte a causa di interessi particolari (che non sono meno particolari se riferentesi a quelli di fosse anche tutti gli uomini meno uno), non è che un (possibile) passato, quello che di volta in volta viene indicato come il passato. Scegliere una storia (seppur con tutta l’imparzialità e la buona fede possibili) significa tracciare una (particolare) linea nell’eterno Presente, “presente” in quanto sempre eternamente completo di ciò che è, era, sarà e di ciò che può, poteva e potrà essere !
Al contrario, come già visto, la ricerca usualmente trae la sua valenza dall’esistenza di quel qualcosa (che si suppone esista!) che viene cercato. Ricordando (come esempio ma non unica eccezione) la predetta prima proposizione fondamentale della Teosofia dobbiamo però constatare che questo qualcosa oggetto della ricerca non c’è sempre, o almeno non c’è sempre la possibilità (nemmeno teorica) di trovarlo (= dargli forma). Ciononostante anche in questi casi “particolari”(almeno rispetto all’usuale modo di considerare le cose e conseguentemente di assegnar loro una certa scala dei valori) ogni ricerca ha il suo valore ed la sua dignità quando è onesta (e qui il fine è fondamentale perché determina direzione e modalità della ricerca; mire egoistiche o di potere personale inquinano irrimediabilmente qualsiasi ricerca) e non contraddittoria. A tal riguardo voglio sottolineare che, pur essendo consapevole che qualsiasi cosa si venga ad intendere con quest’ultimo aggettivo essa si presta ad interpretazioni e “manipolazioni” dialettiche senza fine, ho comunque deciso di usare tale termine non essendo riuscito a trovarne uno migliore per indicare non la mancanza di coerenza logica (aprendo nel qual caso la porta ad innumerevoli “distinguo” relativi alle varie logiche e sottologiche che si potrebbero usare) ma quel quid che permette di escludere l’ambiguità reale, di fondo, la cui presenza rovina qualsiasi cosa negandogli ogni possibilità di reale sviluppo, senza tuttavia voler prescindere anche da quell’innocua se non proficua paradossale ambiguità che quasi inevitabilmente caratterizza ogni ricerca ed ogni affermazione riguardante … ciò che è al di là dell’esperienza di tutti i giorni.

Ritornando al valore della ricerca, mi sento così di affermare che , con i suddetti requisiti, ogni ricerca è valida, ed ha il proprio senso ed il proprio valore in sé stessa. Ricercare è essere in Theo, essere Theo, compartecipare della Sua ricerca di (conoscere) Sé stesso. Penso che dovremmo solamente cercare di ricercare “bene”, se vogliamo trovare veramente Ciò che cerchiamo; ogni altra “deviazione” o tentazione sono secondo me fuorvianti. Purtroppo “cercare” la Verità significa allontanarsene, proprio come ammoniva sempre J.Krishnamurti. E’il linguaggio che, a tutti i livelli, sostituisce alla Verità l’etichetta “Verità”, ed è qui che nasce il problema (=la domanda) “cos’è la Verità?”, problema che in realtà è dove piazzare l’etichetta. Il senso della Ricerca è “bussare alla porta di Dio” (A.Zichichi), fare il proprio rimuovendo e non creando gli ostacoli all’apertura di tale porta, alla realizzazione dell’essere la Verità qui e ora, dell’essere esattamente ciò che è qui e ora.
La Ricerca è … mentre si ricerca, senza la falsa speranza di “finire”. Il nostro Universo è infinito (=senza fine) ma limitato (dalle nostre stesse limitazioni). La Vera Ricerca è quella di “uscire” dal Limitato per integrarsi nell’Illimitato, del quale il Limitato è una manifestazione, il cosiddetto Manifesto ( “della Realtà un quarto si vede, gli altri tre sono al di là” si legge in un’antica Upanishad).
Forse l’impostazione del problema qui proposta è solo una provocazione, forse non rispecchia il suo voler essere “teosofica” (vedi comunque all’inizio l’uso da me proposto di tale termine anche per ovviare al fatto che, limitando “ciò” che è teosofico, lo si restringe considerevolmente impedendogli di essere “non ciò”), ma resta il fatto che è abbastanza innocuo parlare di Ricerca o di Verità ripetendo semplicemente (o “difficilmente”) schemi e definizioni che pur validi ci hanno portato (e ci possono portare, aggiungerei io) solo fino a toccare i limiti degli strumenti che usiamo (primi fra tutti la nostra mente). Sarà perché non voglio accontentarmi, perché vorrei riuscire a superare (ma veramente!) almeno uno degli innumerevoli specchi che ci riflettono indietro tutto ciò che noi vi proiettiamo sopra, illudendoci in tal modo di guardare l’infinito mentre invece ci nascondono anche ciò che avremmo davanti agli occhi, che io invece preferisco forzare tali parole per spremerne fino all’ultimo possibile (reale o immaginario che sia) significato, con la speranza di poter così stabilizzare la ricorrente seppur fuggevole certezza che “il Re è nudo, ma nessuno ha il coraggio di dirlo”.

E’ con tale spirito che, in conclusione, mi viene da dire che Verità è … il Bodhisattva della tradizione buddhista che per aiutare veramente tutti non può concentrarsi su nessuno (in particolare), può solo essere, il che non sminuisce assolutamente il suo totale essere e aiutare (potenzialmente) ciascun membro dell’Umanità. Il fare diventare (=trasformare) l’avverbio “potenzialmente” (nel)l’avverbio “effettivamente” dipende dal singolo (= parte) che si rivolge al Bodhisattva (= Tutto) per riunirsi con Lui (Yoga=riunione) nella Consapevolezza dell’Unità, proprio come dipende dal singolo uomo rivolgersi al Sole per assorbirne l’energia e poter così comprendere che tutta la sua vita, la sua stessa esistenza, dipendono totalmente da Lui.
E’ l’eterna Lila, gioco di Maya, gioco di specchi, dove Esso si “guarda” (=”conosce”), e per farlo deve “dividersi” in (=”diventare”) Questo e Quello, colui che guarda (e ricerca!) e Ciò che è guardato (la Verità!) ……..Verità e Ricerca nella Pratica Teosofica…..E qui mi fermo!

Shivananda
 
 
 Stefano Lazzarich