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Premetto subito che nelle righe che seguiranno
cercherò di parlare di metodica della ricerca e non dei suoi
contenuti, anche se sono consapevole che fra i due diversi approcci
le differenze sono più spesso ponti piuttosto che barriere.
Sono molto contento di aver dovuto preparare questo intervento; il
farlo per me è stata un’esperienza, una ricerca, il riuscire
a vivere (forse solo mentalmente, ma direi non solo) ciò di
cui parlerò, prendendo man mano appunti da elaborare in un
secondo momento. Un cortocircuito nel quale si parla di ciò
che si vive … parlando di ciò che si vive … etc…etc…etc…
Ciò che seguirà è il risultato di un “viaggio”
nel tema senza avere delle cose da dire precostituite; devo allora
affermare di averle “studiate”? Forse, o forse cercate,
o forse solamente vissute. Alla fin fine sono semplicemente andato
… e ora sono qui: la VERITA’ di sentirsi parte di qualcosa
che ti trascende, e GIOIRNE!
Ciò che seguirà è un po’ come nei libri
di Shankaracharia: cinquanta pagine di introduzione per venti pagine
di commentari relativi a dieci versetti dove si afferma che il Tutto,
alla fine, è compreso in due sole righe…per chi sa leggere.
Ritengo sia però necessario a questo punto stabilire alcune
definizioni e soprattutto dei punti di vista, tanto per capirsi (o
almeno non fraintendersi più di tanto) quando userò
alcune parole chiave.
Per esempio “Teosofia” (da cui l’aggettivo “teosofico/a”)
viene spesso usato per indicare tutto un insieme di libri, affermazioni,
metodiche, posizioni, verità, opinioni,etc. riguardanti la
Conoscenza e lo studio della Conoscenza di Dio (in tutti i possibili
sensi tale frase possa essere interpretata). Pur riconoscendo l’assoluta
validità di tale interpretazione io preferisco invece intendere
con tale termine tutto ciò che comprende i vari approcci particolari
al tema (cristiano, islamico, indù, neoplatonico, buddista,
scientifico, filosofico o altro) ma che non può essere compreso
(e quindi limitato !) da nessuno di essi né da nessun altro.
Nella mia vita ho sempre cercato ed apprezzato i consessi dove veniva
valorizzato questo secondo punto di vista, anche se il primo non ne
è l’opposto ma solamente una certa “cristallizzazione”.
Lo stesso titolo Teosofia Contemporanea dato ad una sua pregevole
opera dal prof. Renato De Grandis presuppone la possibilità
di una sorta di ampliamento teosofico del precedente canone teosofico,
a formare un nuovo canone da superare a sua volta per ampliamento
e non per banale contrapposizione, e così via , senza fine,
rincorrendo la pentola d’oro della Verità ultima che
si trova alla fine dell’arcobaleno, cioè dappertutto
ed in nessun posto allo stesso tempo, dipende da dove ci si trova.
Anche da un punto di vista più propriamente etimologico
con Theos-Sophia si può più che correttamente intendere
quel corpo di verità che costituiscono la conoscenza (delle
cose ) di Dio, ma se non ci si ferma al primo e più superficiale
significato legato all’uso quotidiano delle parole conoscenza
e Dio, ci si può allora rendere conto che dietro ad esso
c’è tutto un universo dove Theos-Sophia significa ……..
qualcos’altro, l’essere (=conoscere) in Dio, il cercare
(perché si conosce, cioè si sente) Dio. Va comunque
ben specificato che in tutte le precedenti ricorrenze la parola
“Dio” è solo un simbolo comodo per … Quello,
il Theos!
Ovviamente le diverse visioni che le differenti interpretazioni
della parola Teosofia possono comunicare influiscono direttamente
su ciò che si può intendere per Pratica Teosofica,
essendo quest’ultima semplicemente il mettere in pratica (=azione!)
l’essere teosofo, o più semplicemente il vivere la
Teosofia.
Continuando nella disamina dei termini usati nel titolo del presente
scritto mi voglio ora soffermare sul più “pesante”
e solo apparentemente semplice: Verità. Prescindendo da difficili
equilibrismi concettuali, che almeno per il momento preferirei tralasciare,
direi che verità è ciò che è conforme
a ciò che E’, nel senso che tale concetto nasce dal
confronto fra ciò che E’ e ciò che la verità
afferma essere. Confronto fra forme ovviamente (come d’altronde
sottolinea l’aggettivo con-forme) che quando ha esito diciamo
“positivo” non può che affermare una sorta di
isomorfismo fra Ciò che E’ e ciò che è
vero, non una sostanziale identità come quasi sempre superficialmente
e comodamente si preferisce credere!
Ciò non ha nulla a che fare con la presenza (fortuita, voluta
o inevitabile che sia) di un qualsiasi genere di “falsità”
che possa inquinare e/o limitare l’ipotetica perfezione di
una data verità, ma è solo la constatazione che qualsiasi
Verità (formalizzata a livello umano!) non può che
essere relativamente (= umanamente) assoluta, non può cioè
che essere la proiezione di ….(Theos?) a livello umano. Sicuramente
la Verità umana è qualitativamente e strutturalmente
“diversa” dalla Verità angelica o dalla Verità
animale (per riconoscerle tutte come Verità bisognerebbe
essere sul piano che tutte le comprende!), ma seppur con infinitesime
differenze (infinitesime solo se confrontate con quelle intercorrenti
fra le grandi categorie precedentemente considerate) dobbiamo giocoforza
affermare che la Verità di A non è mai esattamente
quella di B, almeno fino a che A e B sono diversi (affermazione
persino ovvia se interpretata alla luce dei precedenti concetti
di “proiezione” e “confronto”). Tutto questo
mio discorso può sembrare l’essenza stessa del relativismo,
una specie di negazione della possibilità di pervenire ad
una Verità condivisa, ma non è così. Il fatto
è che spesso per aggirare l’ostacolo si assume un paradigma
di riferimento particolare (= privilegiato) come il “migliore”
oppure il più “vero”, dopodichè studiare
(quando non addirittura ricercare!) assume semplicemente il significato
di impossessarsi di tale paradigma.
Vorrei invece testimoniare una mia reale esperienza di Verità
condivisa, esperienza che a parte i contenuti e le argomentazioni
specifiche si potrebbe schematizzare con: “A dice che x è
bianco; B dice che x è nero; A dice che B ha ragione; B dice
che A ha ragione”. Ecco la Verità vera! A e B, assieme,
in quel momento erano la Verità!
Forse sembrerà incredibile ma quanto detto sopra è
veramente successo, seppur in un contesto di particolare …
chiarezza e direi anche onestà (non trovo un termine migliore
per indicare l’atmosfera psicologica di quel momento, termine
che comunque va inteso libero da qualsiasi seppur minima sfumatura
morale) . Ecco allora come superare i limiti di un comodo relativismo:
aggiungergli di pari passo l’Onestà (sempre nel senso
citato), senza comunque alcuna presunzione di poter mai cogliere
l’inafferrabile, ma ottenendo così un sano Relativismo
col quale poter veramente avanzare e non semplicemente girare in
tondo, come spesso si fa accontentandosi di allargare il cerchio
che si percorre riempiendolo di nuove “verità”
.
Reputo inoltre opportuno ricordare che ogni conoscenza (speculativa)
è comunque relativa, anche quella frutto di un’esperienza
personale diretta che dipende comunque almeno dallo specifico punto
spazio-temporale in cui il soggetto si trova (anche a voler prescindere
dal particolare paradigma interpretativo attraverso il quale l’esperienza
viene concettualizzata). Forse possono esistere tipi diversi di
conoscenza liberi da tale caratteristica intrinseca (fusione soggetto-oggetto,
identificazione a-razionale, o altro) ma anch’essi ricadono
nel relativismo non appena si cerca di trasmettere speculativamente
(=verbalmente, razionalmente) i contenuti di tali esperienze.
Da tutto quanto precedentemente detto, ridetto e puntualizzato discende
che fino a quando ci si limita a confrontarsi con verità
limitate (cioè relative ad uno specifico seppur incommensurabilmente
vasto campo di studio) il concetto di Verità già dato
(conformità fra ciò che è e ciò che
si afferma) può stare in piedi, almeno con le precisazioni
e le ritarature di volta in volta necessarie che permettono di giungere
a poter affermare la Verità di qualcosa all’interno
di un certo paradigma. Se però si vuole stirare tale concetto
al limite, forzandolo o con l’ampliamento indefinito del “qualcosa”
a cui si riferisce o con l’indefinita riduzione-semplificazione
del paradigma di riferimento, si ottiene solamente che ad un certo
punto esso cade, incapace di reggersi in piedi svuotato di quei
pilastri che pur non detti ne costituiscono lo scheletro portante.
Consideriamo per esempio , a tal riguardo, la prima proposizione
fondamentale della Teosofia con la quale H.P.Blavatsky nella sua
Dottrina Segreta afferma l’esistenza di “un Principio
Onnipresente, Eterno, Illimitato, Immutabile sul quale qualsiasi
speculazione è impossibile poiché è al di là
delle capacità della mente umana e non potrebbe essere ridotto
che a espressioni verbali (=mentali, nota dello scrivente) o comparazioni”.
Ora se prendiamo in considerazione la “Verità”
di tale Principio o dell’affermazione della Sua esistenza
ci accorgiamo che essa è per la Sua stessa natura indimostrabile,
al di fuori com’è della possibilità del confronto
di cui si parlava prima. La sua Verità, che di sicuro né
provo né desidero mettere in discussione ed anzi sottoscrivo,
è quindi un fatto soggettivo nel senso di appartenente all’evidenza
dell’esperienza soggettiva, e quindi contestabile (al di là
delle parole usate e della loro condivisione) eventualmente solo
all’interno dell’esperienza stessa, se condivisa, o
di un condiviso paradigma esperenziale etichettato ed accettato
come reale. Una qualunque Verità riguardante cose per loro
natura sfuggenti ad una definitiva misura-confronto, una volta formalizzata
e quindi cristallizzata in una forma definita, per me “non
è vera” fino a quando non fa parte (=non diventa parte)
della mia vita, della mia esperienza. Posso eventualmente “crederci”,
ma se non è parte di me resterà sempre qualcosa di
solo relativamente vero. E non è vero che un relativismo
più condiviso è meno relativismo di uno poco condiviso,
qualunque sia la differenza quantitativa fra le dimensioni dei due
consensi: l’unica sostanziale differenza, l’unica reale,
è quella fra relativismo e nonrelativismo, che non significa
per niente assolutismo. Tanto per accennare a ciò che intendo
con nonrelativismo ricordo che, una volta ammessa la possibilità
(rarissima!) di sviluppare uno stato coscienziale nel quale la mia
vita significa la vita dell’intera umanità, qualsiasi
cosa sia vera per me è ovviamente vera per tutti, è
sì relativa a me ma è al tempo stesso nonrelativa
venendo a mancare la possibilità stessa di un diverso relativismo
(è utile ricordare che relativismo implica dualità,
o almeno la sua possibilità).
Resta comunque il valore e la verità (relativa) delle esperienze
personali oneste dei singoli ricercatori, oneste sempre e solo nel
senso già specificato, ed è proprio basandosi consapevolmente
sul valore di tali ricerche che possiamo proseguire nella nostra
analisi senza sentirsi sminuiti dai suoi limiti intrinseci né,
per ovviare a ciò, cercare stupidamente di ignorarli o peggio
ancora negarli.
Precedentemente abbiamo considerato come l’aggettivo “teosofica”
colora differentemente la pratica, e seppur sommariamente abbiamo
visto che i diversi significati che associamo alla Teosofia influiscono
anche pesantemente su tutto quanto ad Essa si collega. In che modo
invece la ricerca viene caratterizzata dall’essere “teosofica”?
Prima di provare a rispondere a tale domanda ritengo necessario
sottolineare che le possibili risposte sia determinano che sono
conseguenza di visioni del tutto diverse dell’intero problema.
Comunque, secondo me, le diverse risposte e le loro conseguenze
non sono reciprocamente contraddittorie, ma semplicemente esplicitano
diversi punti di vista che possono, se approcciati con mente aperta,
gettare luce e spunti interessanti anche sugli altri, magari a torto
e superficialmente considerati incompatibili.
Tornando alla precedente domanda mi sembra che, a parte le innumerevoli
sfumature, le risposte possibili siano essenzialmente due:
a) ricerca teosofica significa cercare di scoprire (e/o ottenere)
ciò che non si sa (e/o ha) adesso in ambito teosofico, così
come si ricerca qualcosa in altri ambiti, presupponendo che ci sia
qualcosa da scoprire, che qualcuno l’abbia scoperto e che
per la stessa strada anche noi lo scopriremo;
b) ricerca teosofica significa cercare di vivere (=mettere in pratica)
ciò che E’, che non è da scoprire ora più
di quanto non sia da scoprire poi o non sia mai stato da scoprire
in un passato più o meno lontano.
In questa seconda visione, forse a prima vista molto diversa se
non “alternativa” all’usuale primo significato
dato alla parola ricerca prima ancora che essa sia teosofica, è
essenziale ribadire e tenere sempre presente che non solo ciò
che è, ma anche tutto ciò che potrebbe essere, è
ciò che veramente E’ !!!
Nell’Essere c’è abbondante spazio sia per tutte
le possibilità che hanno trovato realizzazione effettiva
e sia per quelle che invece non l’hanno avuta, e pur prescindendo
dall’ impossibilità in molti casi di poter sapere con
assoluta certezza in quale delle due situazioni ci si trova, resta
comunque il fatto che la semplice possibilità, la semplice
ipotesi, ha una sua realtà almeno nell’ambito (=mondo)
mentale. A riprova di quanto detto, per esempio, voglio far notare
che il passato storico, quello cioè che viene riconosciuto
come tale (secondo certe logiche-prove-metodologie ben definite)
dalla stragrande maggioranza degli uomini, quello che a volte viene
riscritto a causa di nuove scoperte ed altre volte a causa di interessi
particolari (che non sono meno particolari se riferentesi a quelli
di fosse anche tutti gli uomini meno uno), non è che un (possibile)
passato, quello che di volta in volta viene indicato come il passato.
Scegliere una storia (seppur con tutta l’imparzialità
e la buona fede possibili) significa tracciare una (particolare)
linea nell’eterno Presente, “presente” in quanto
sempre eternamente completo di ciò che è, era, sarà
e di ciò che può, poteva e potrà essere !
Al contrario, come già visto, la ricerca usualmente trae
la sua valenza dall’esistenza di quel qualcosa (che si suppone
esista!) che viene cercato. Ricordando (come esempio ma non unica
eccezione) la predetta prima proposizione fondamentale della Teosofia
dobbiamo però constatare che questo qualcosa oggetto della
ricerca non c’è sempre, o almeno non c’è
sempre la possibilità (nemmeno teorica) di trovarlo (= dargli
forma). Ciononostante anche in questi casi “particolari”(almeno
rispetto all’usuale modo di considerare le cose e conseguentemente
di assegnar loro una certa scala dei valori) ogni ricerca ha il
suo valore ed la sua dignità quando è onesta (e qui
il fine è fondamentale perché determina direzione
e modalità della ricerca; mire egoistiche o di potere personale
inquinano irrimediabilmente qualsiasi ricerca) e non contraddittoria.
A tal riguardo voglio sottolineare che, pur essendo consapevole
che qualsiasi cosa si venga ad intendere con quest’ultimo
aggettivo essa si presta ad interpretazioni e “manipolazioni”
dialettiche senza fine, ho comunque deciso di usare tale termine
non essendo riuscito a trovarne uno migliore per indicare non la
mancanza di coerenza logica (aprendo nel qual caso la porta ad innumerevoli
“distinguo” relativi alle varie logiche e sottologiche
che si potrebbero usare) ma quel quid che permette di escludere
l’ambiguità reale, di fondo, la cui presenza rovina
qualsiasi cosa negandogli ogni possibilità di reale sviluppo,
senza tuttavia voler prescindere anche da quell’innocua se
non proficua paradossale ambiguità che quasi inevitabilmente
caratterizza ogni ricerca ed ogni affermazione riguardante …
ciò che è al di là dell’esperienza di
tutti i giorni.
Ritornando al valore della ricerca, mi sento così di affermare
che , con i suddetti requisiti, ogni ricerca è valida, ed
ha il proprio senso ed il proprio valore in sé stessa. Ricercare
è essere in Theo, essere Theo, compartecipare della Sua ricerca
di (conoscere) Sé stesso. Penso che dovremmo solamente cercare
di ricercare “bene”, se vogliamo trovare veramente Ciò
che cerchiamo; ogni altra “deviazione” o tentazione
sono secondo me fuorvianti. Purtroppo “cercare” la Verità
significa allontanarsene, proprio come ammoniva sempre J.Krishnamurti.
E’il linguaggio che, a tutti i livelli, sostituisce alla Verità
l’etichetta “Verità”, ed è qui che
nasce il problema (=la domanda) “cos’è la Verità?”,
problema che in realtà è dove piazzare l’etichetta.
Il senso della Ricerca è “bussare alla porta di Dio”
(A.Zichichi), fare il proprio rimuovendo e non creando gli ostacoli
all’apertura di tale porta, alla realizzazione dell’essere
la Verità qui e ora, dell’essere esattamente ciò
che è qui e ora.
La Ricerca è … mentre si ricerca, senza la falsa speranza
di “finire”. Il nostro Universo è infinito (=senza
fine) ma limitato (dalle nostre stesse limitazioni). La Vera Ricerca
è quella di “uscire” dal Limitato per integrarsi
nell’Illimitato, del quale il Limitato è una manifestazione,
il cosiddetto Manifesto ( “della Realtà un quarto si
vede, gli altri tre sono al di là” si legge in un’antica
Upanishad).
Forse l’impostazione del problema qui proposta è solo
una provocazione, forse non rispecchia il suo voler essere “teosofica”
(vedi comunque all’inizio l’uso da me proposto di tale
termine anche per ovviare al fatto che, limitando “ciò”
che è teosofico, lo si restringe considerevolmente impedendogli
di essere “non ciò”), ma resta il fatto che è
abbastanza innocuo parlare di Ricerca o di Verità ripetendo
semplicemente (o “difficilmente”) schemi e definizioni
che pur validi ci hanno portato (e ci possono portare, aggiungerei
io) solo fino a toccare i limiti degli strumenti che usiamo (primi
fra tutti la nostra mente). Sarà perché non voglio
accontentarmi, perché vorrei riuscire a superare (ma veramente!)
almeno uno degli innumerevoli specchi che ci riflettono indietro
tutto ciò che noi vi proiettiamo sopra, illudendoci in tal
modo di guardare l’infinito mentre invece ci nascondono anche
ciò che avremmo davanti agli occhi, che io invece preferisco
forzare tali parole per spremerne fino all’ultimo possibile
(reale o immaginario che sia) significato, con la speranza di poter
così stabilizzare la ricorrente seppur fuggevole certezza
che “il Re è nudo, ma nessuno ha il coraggio di dirlo”.
E’ con tale spirito che, in conclusione, mi viene da dire
che Verità è … il Bodhisattva della tradizione
buddhista che per aiutare veramente tutti non può concentrarsi
su nessuno (in particolare), può solo essere, il che non
sminuisce assolutamente il suo totale essere e aiutare (potenzialmente)
ciascun membro dell’Umanità. Il fare diventare (=trasformare)
l’avverbio “potenzialmente” (nel)l’avverbio
“effettivamente” dipende dal singolo (= parte) che si
rivolge al Bodhisattva (= Tutto) per riunirsi con Lui (Yoga=riunione)
nella Consapevolezza dell’Unità, proprio come dipende
dal singolo uomo rivolgersi al Sole per assorbirne l’energia
e poter così comprendere che tutta la sua vita, la sua stessa
esistenza, dipendono totalmente da Lui.
E’ l’eterna Lila, gioco di Maya, gioco di specchi, dove
Esso si “guarda” (=”conosce”), e per farlo
deve “dividersi” in (=”diventare”) Questo
e Quello, colui che guarda (e ricerca!) e Ciò che è
guardato (la Verità!) ……..Verità e Ricerca
nella Pratica Teosofica…..E qui mi fermo!
Shivananda
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