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Parlare dell’Advaita Vedanta può essere fatto a vari livelli, storico, filosofico, in relazione ad altre vie, in relazione a sé stessi (che è poi l’unico modo in cui mi sento di poter dire qualcosa).
Comunque sia, occorre però fare una breve introduzione riguardo l’ambito storico-culturale nel quale tale filosofia si è sviluppata, perché altrimenti molti suoi aspetti, anzi proprio quelli secondo me più peculiari, potrebbero venire male interpretati, oppure ancor peggio caricati di valori e significati che forse non corrispondono a quelli originali.
Più che parlare del e sull’Advaita Vedanta infatti, ciò che vorrei condividere qui sono soprattutto alcune riflessioni riguardo a come si possa reagire davanti alla “sfida” che l’Advaita Vedanta ci pone.
Innanzi tutto, prima di Advaita, chiariamo cosa significa Vedanta, letteralmente “fine dei Veda”. Quindi……Veda. A parte essere il risultato di generazioni e generazioni di trasmissione orale di esperienze e di cultura umana nel senso più ampio, essi rappresentano il corpus “religioso” delle popolazioni Ariane che invasero il subcontinente Indiano qualche migliaio di anni prima dell’era cristiana, sostituendosi alle (e facendosi influenzare dalle) civiltà lì preesistenti, a partire dalla cosiddetta “civiltà dell’Indo” (siti di Mohenjo Daro e Harappa, attuale Pakistan) e fino successivamente alle popolazioni dravidiche del meridione, scure di pelle, che nell’epica del Ramayana vengono indirettamente ma decisamente associate ai “demoni cattivi” stanziati nell’isola di Lanka, che agli ordini di Ravana tanti guai provocarono ai “buoni” di stirpe ariana ed in particolare all’eroe Rama. Tali civiltà, come d’altronde quelle mediterranee pre-greche, erano perlopiù contadine, in qualche misura ”matriarcali”, legate alla natura ed ai suoi cicli. Gli Ariani, più guerrieri e patriarcali nei valori proposti, svilupparono contestualmente a questo incontro-scontro di civiltà una religione “della Natura”, con dèi maggiori e minori incarnazione delle forze naturali, Surya (il Sole) in testa, Indra (la Pioggia/Tempesta), Agni (il Fuoco), Vayu (il Vento) etc…, con miti che ne illustrano i legami palesi e occulti, dove la Natura è relazionata all’Uomo e l’Uomo alla Natura. E’ centrale il concetto di Sacrificio, azione rituale fatta per ingraziarsi gli dei ed ottenerne i favori che permettevano di ottenere quanto voluto, concetto che velocemente travalica il significato originario per assumere una connotazione onnipervasiva ben analizzata, documentata e spiegata nel saggio L’Ardore di R.Calasso (Adelphi 2010).
Rig (inni) Sama (melodie) Yajur (mantra e formule sacrificali) e Atharva (ultimo e più “magico”) sono i nomi dei quattro Veda, ciascuno con alcune parti dette Samhita e Brahmana dedicate ai brahmani, casta sacerdotale deputata al tramite fra gli uomini e il divino, e altre dette Upanishad, letteralmente “insegnamenti dati a chi ascolta” all’interno della tradizionale relazione Guru/Chela, cioè Maestro/Discepolo. Il corpus delle Upanishads è ciò che viene indicato come Vedanta.
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Le Upanishad più antiche sono impregnate di linguaggio ed immagini bucoliche, fanno riferimento ai vari tipi di sacrificio ma anche ai loro significati trascendenti le contingenze immediate, arrivando a formulare nella Chandogya Up. il famoso detto “TatTwamAsi” che sarà come vedremo una delle espressioni fulcro dell’insegnamento advaitico. Quelle più recenti sono invece maggiormente filosofiche, dove le storie narrate valgono principalmente come contenitori per discorsi sul senso del mondo,della vita, della morte, dell’Uomo.
Va ricordato comunque che prima di essere scritti i Veda furono tramandati (e modificati/adattati) oralmente per parecchi secoli, da cui deriva il loro tradizionale risalire “alla notte dei tempi”. Inoltre è importante sottolineare che nella cultura indiana solo i Veda sono Sruti (cioè “rivelazione”), donati agli uomini dai mitici Rishi non perché a loro volta ricevuti da qualche dio benevolo, ma per PERCEZIONE DIRETTA del loro contenuto; tutto il resto degli innumerevoli testi filosofico- religiosi indiani ( Purana vari, Mahabharata con al suo interno la famosa Bhagavad Gita, Ramayana, BramaSutra, Tantra di diverse tendenze, ManuSmriti, etc..) è invece considerato Smriti, cioè testimonianze, elaborazioni, inferenze ed esemplificazioni che per quanto importanti ed illuminanti possano essere non avranno comunque mai l’autorità e lo status di Verità indiscutibile riservati ai Veda (cfr. Brahma Sutras III.ii.24 : “Gli Yogi Lo vedono durante l’adorazione, per percezione (le Sruti) e inferenza (le Smriti)”).
Dall’appena citato aforisma si può comprendere anche l’enorme ruolo che in quest’ambito gioca l’interpretazione, giudicata corretta o meno in base a ben precise regole grammaticali-sintattico-semantiche largamente citate ed usate come armi dialettiche nelle diverse diatribe filosofico-dottrinali del tempo, nonostante l’enorme precisione della lingua sanscrita. Anche per questa ragione, cioè sulla base delle successive diverse interpretazioni ed elaborazioni, il Vedanta si suddivise poi in Dwaita, Vishistadvaita, Advaita (rispettivamente Dualista, Non Dualista Qualificato, Non Dualista).
Mi sembra qui utile ricordare che Induismo è il nome dato dagli Inglesi al corpus totale della religione degli Indiani-Indù. In effetti al suo interno possiamo trovare di tutto, aspetti vedici (soprattutto legati ai sacrifici), aspetti puranici (con tutte le varie divinità mitologiche e le loro saghe), aspetti legati a vecchi rituali pre-ariani magici, della fertilità, potremmo dire “dionisiaci” (vedi “Shiva e Dioniso”di A.Danielou), filosofie interpretative di tutto ciò e delle reciproche varie relazioni. La stessa assai menzionata Trimurti, “trinità” formata da Brahma-Shiva-Vishnu, è di origine post-vedica, con Shiva e Vishnu diventati poi per i rispettivi devoti sempre più sinonimi di Ishwara, il Dio Unico del quale tutti gli altri dei e tutto il resto della manifestazione visibile ed invisibile non sono altro che manifestazioni-aspetti.
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Nella storia e nello sviluppo della filosofia e religione indiana si possono infatti identificare varie tendenze e correnti, dal nichilismo all’idealismo, al materialismo e altro, spesso in netto contrasto l’un l’altra, fra le quali nel tempo si sono stabilizzate e consolidate soprattutto il Samkya/Yoga (dualistica) e l’Advaita Vedanta (non dualistica), oltre a vari movimenti Bhakti dove l’aspetto filosofico è secondario rispetto alla pratica devozionale rivolta all’aspetto prescelto della Divinità. La principale divisione da tenere presente è comunque quella fra darshana (cioè visioni) Ortodosse (comprendenti quelle precedentemente citate), che riconoscono l’autorità dei Veda, e quelle Eterodosse che non la riconoscono. Fra quest’ultime la principale è sicuramente il Buddhismo originale di Gautama, nato dal tentativo di contrastare l’assoluto potere in campo metafisico detenuto dai Bramani, che predica il superamento del valore totalizzante dato al Sacrificio come unico mezzo per trascendere il normale livello coscienziale legato alla vita quotidiana. Buddhismo che con Ashoka, imperatore Maurya del 3° sec. a.c., diventa assolutamente predominante in India al punto da far quasi sparire o almeno ridimensionando notevolmente l’influenza del Bramanesimo originale, Buddhismo che verrà poi lentamente “risucchiato” dalla rinascita del bramanesimo e dall’avvento di quello che diventerà poi l’Induismo.
La situazione indiana dei mille anni a cavallo dell’anno zero cristiano, dal 500 a.c. al 500 d.c. circa, risulta quindi filosoficamente molto fluida, con vari aspetti e varie tematiche che si sovrappongono, integrano,accettano, rifiutano, reinterpretano vicendevolmente, con l’uso di moltissima dialettica che risulta essere una delle caratteristiche fondamentali del confronto fra idee diverse sia nell’India antica che in quella moderna (per maggiori dettagli ed esemplificazioni occorrerebbe uno studio storico/filosofico di grande peso e grande respiro, fuori luogo nel presente contesto).
Una delle diatrìbe principali, presente soprattutto durante i primi secoli dell’era cristiana, fu quella fra il Buddhismo, la cui teoria dell’impermanenza veniva assimilata dagli oppositori ad una forma di nichilismo e su tali basi contrastata, ed il Vedanta che al contrario affermava il Brahman quale Realtà assoluta, concetto ovviamente di derivazione vedica e difeso facendo leva proprio sulle affermazioni dei Veda. Oltre agli scontri, spesso anche aspri, fra diverse dottrine e diverse visioni del mondo, c’era comunque anche chi andava cercando una sorta di “mediazione” o meglio di sintesi fra le due visioni, potremmo forse meglio dire una sorta di “interpretazione” delle novità proposte dal Buddismo in chiave compatibile con gli insegnamenti Vedantici. Fra costoro si colloca Gaudapada, guru del guru di Shankara, che con il suo Agamasastra ed altri lavori confronta ed accosta l’impermanenza-irrealtà buddhista con la manifestazione multiforme che percepiamo, vista questa come sovrimposta da Avidya (non-Conoscenza) su Brahman, unica Realtà esistente e sottostante a tutto ciò che appare. Shankara poi, figura a metà fra mito e storia soprattutto in relazione all’epoca ed agli episodi della sua vita (si va dal 550 all’ 800 d.c., ma c’è chi lo pone
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addirittura prima di Cristo), in qualche modo è il simbolo e l’artefice della successiva restaurazione brahmanica e vedantica, che si concretizza però su un piano diverso da quello originale puramente vedico!
Shankara è totalmente ortodosso, l’autorità dei Veda è per lui indiscussa così come il ruolo delle caste ed altre “rigidità” della visione bramanica, però attraverso i suoi commentari alle varie Upanishad, ai Brahma Sutra ed alla Bhagavad Gita, oltre a varie opere di divulgazione ed analisi della filosofia Advaitica, confuta tutte le varie posizioni precedenti (e soprattutto quello che lui chiama il nichilismo buddista), portandosi sulla scia di Gaudapada ad una visione realista di Realtà Unica =Brahman che sottostà a tutto, Realtà indifferenziata, immutabile, eterna, al di là di ogni possibile caratterizzazione.
Come esempio dell’azione letteraria di Shankara voglio ricordare in particolare il suo commento alla Mandukyopanishad (12 sloka relativi al simbolismo di A, U e M nell’AUM, già commentati e “sviluppati” da Gaudapada nei suoi Karika) che è intrecciato al suo commento dei Karika medesimi, opera che in totale partendo dai soli 12 sloka dell’Upanishad arriva ad occupare un intero volume.
Da sottolineare è anche la modalità di analisi e di presentazione adottata da Shankara nei suoi lavori. Molto spesso sono sviluppati in forma dialogica, magari simulata, fra lui ed il contendente, dove tutte le affermazioni o confutazioni sono portate “in punta di fioretto”, con analisi minuziose di tutte le possibili implicazioni di ogni particolare sia da una parte che dall’altra, citando le strutture logico/grammaticali che inducono a certe conclusioni piuttosto che altre, con confronti e richiami ad altre affermazioni analoghe od opposte in altri contesti, dando sì spazio alle proprie considerazioni personali ma “rivestendole” sempre di un’autorità vedica-logica-esperienziale che le avrebbe dovuto porre fuori discussione (n.b.: bisogna tenere presente che in India, sia storicamente che filosoficamente, c’è sempre stato e c’è tuttora spazio per sintesi-sincretismi-interpretazioni anche totalmente opposte della stessa cosa che convivono nel tempo e nello spazio, e da qui discende l’importanza e la necessità di corroborare sempre con argomenti il più possibile validi le proprie affermazioni e le proprie confutazioni. Come esempio quasi contemporaneo di tutto ciò posso citare Prabhupada, fondatore del movimento degli Hare Krishna, che nel suo “La Gita così com’è ” chiama gli Advaiti “eretici” solo perché nella loro analisi non si attengono alla pura lettera del testo sacro). Come già detto c’è poi, oltre ai commentari, tutta una serie di altre opere attribuite a Shankara (VivekaCudaMani, Dakshinamurti Stotra, Atmabodha, etc…) nelle quali si affrontano temi specifici o generali riguardo il mondo, l’uomo, il sentiero per la Liberazione , la dottrina Advaitica stessa, trattati sempre e comunque in chiave strettamente monistica, o meglio Non-Duale (come vedremo non è proprio la stessa cosa).
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Dopo Shankara, seguendo ma anche reinterpretando il pensiero del maestro, apparirono varie sottocorrenti advaitiche, differenti fra loro più per cavilli dottrinali che per la sostanza. Inoltre seguendo l’esempio, il metodo ma non il pensiero dello stesso, Ramanuja successivamente interpretò il vedanta in chiave Vishistadvaita, ed infine con Madhva si ebbe poi l’interpretazione dualistica propria della corrente Dwaita.
Un aspetto extradottrinale che accomuna comunque le varie correnti è quello dell’importanza di fatto data all’aspetto “scolastico”, di studio potremmo dire, della relativa Sadhana (=disciplina) praticata, ed infatti anche i vari diversi ordini di Sannyasi, riformati e riorganizzati proprio da Shankara, sono tuttora molto portati allo studio ed alla divulgazione, oltre ovviamente alla ricerca della realizzazione personale. Per completezza riguardo tale argomento bisogna comunque ricordare che parallelamente ai precedenti, e con rapporti più o meno stretti con questi, c’è tutta una pletora enormemente variegata di sadhu-sannyasi più o meno “fai da te”, che interpretano e vivono tutte le possibili sfumature dell’uomo che si dedica al trascendente, dalle più basse alle più sublimi.
Penso che per quanto riguarda il “venire in contatto con questa illuminante filosofia”, come richiesto nella presentazione del presente studio, abbiamo ora una cornice storico-relazionale essenziale ma sufficiente per poterci confrontare in prima persona con l’argomento. Cerchiamo quindi ora di ”approfondire alcuni dei suoi aspetti più significativi”, come parimenti si richiedeva, tenendo conto che la soggettività e parzialità insite in ogni valutazione sono determinanti nella scelta di che cosa volersi qui occupare. Reputo d’altronde che una trattazione sicuramente più completa, organizzata, e soddisfacente l’interesse dello studioso dell’insegnamento vedantico nei suoi diversi aspetti ed implicazioni, si possa trovare nei numerosi studi specialistici disponibili sull’argomento.
Volendo qui allora mirare direttamente al nocciolo della questione, possiamo sicuramente dire che il fulcro dell’insegnamento advaitico è l’identità del Sé individuale (Atman) con il Sé universale (Brahman), assieme alla correlata identità di tuttoin Brahman, condensata nei Mahavakyas vedici TatTvam Asi (Tu sei Quello), AyamAtmaBrahma (Questo Atman è Brahman), etc… Cornice ed al tempo stesso sublime conseguenza di tutto ciò è che esiste SOLO Brahman, UNITA’ indifferenziata, senza attributi, “QUELLO” da cui la mente torna indietro, Neti-Neti (=né questo né quello), etc… e TUTTA la Manifestazione è solo Illusione-Maya, che viene superimposta su Brahman a causa dell’Avidya (=Ignoranza), come “il serpente sulla corda” o “l’argento sulla madreperla”, per citare classici esempi advaitici.
Parallelamente il fine dell’Advaita Vedanta, inteso come filosofia operativa, è la Liberazione, cioè la Realizzazione in prima persona dell’effettiva identità Atman-Brahman, assieme a tutte le sue conseguenze (cfr. cap.7 e 8 di Vedanta Paribhasa, ed. Advaita Ashrama 1989, Calcutta).
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Una volta stabiliti cuore e direzione dell’insegnamento advaitico, tutto il resto ne è sviluppo, elaborazione, insegnamento, analisi. Tutto sicuramente estremamente importante ed interessante per poter approfondire degnamente l’argomento, ma che in questa sede preferisco non affrontare direttamente, lasciandolo come già detto ad altri più adatti e competenti di me, e volendo invece occuparmi di alcuni aspetti della filosofia advaitica un po’ “trasversali” e per questo secondo me raramente sottolineati come meritano.
Voglio pertanto cominciare sottolineando la peculiarità del metodo investigativo vedantico per il quale viene reputato Vero solo ciò su cui convergono Sruti, insegnamento del Guru ed esperienza diretta personale. Conseguenza di ciò è che tutti gli sforzi, il “lavoro” da fare, ed in ultima analisi tutto il valore dello studio-ascolto-riflessione-meditazione nelle diverse forme, sta nell’ottenere tale convergenza.Tre approcci, tre vie che per essere efficaci devono portare tutte nel medesimo punto: solo lì sta il Vero! Ovviamente tutto ciò “spinge” a cercare di adattare in qualche modo le risultanze delle tre angolazioni, limandone e reinterpretandone le divergenze, puntualizzandone meticolosamente i più piccoli particolari, sempre nel tentativo di ottenere la sospirata convergenza (come esempio di quanto appena detto porterei il già citato testo Vedanta Paribhasa, di scuola Vivarana, una delle due correnti principali che fanno riferimento ai due primi discepoli di Shankara, Padmapada* e Vacaspati. In questo testo sul Vedanta ci si occupa infatti all’inizio della validità dei diversi strumenti di conoscenza e dell’analisi meticolosa degli stessi, occupando ben sei capitoli, per poi lasciare ai soli ultimi due il compito di occuparsi direttamente del soggetto dell’Advaita Vedanta e del suo fine).
Prendendo ancora il Vedanta Paribhasa come spunto di riflessione, potremmo cercare di usare la sua stessa strategia operativa per studiare-commentare-occuparci in qualche modo delle varie modalità relative a come avviene che Maya entri in azione, a come possiamo uscirne, a come possiamo infine entrare veramente in contatto con la Realtà Ultima asserita dal Vedanta.
In questo testo infatti, dopo l’affermazione iniziale TatTvamAsi, si procede analizzando cos’è Tat, cosa Tvam, quali sono gli aspetti essenziali e quali quelli secondari di Brahman, le differenze e le identità fra le varie “vie”, e così via …in ultima analisi tutti i vari “come” e “perché” le cose sono come sono e appaiono come appaiono (per es. nel commentario a pag. 210 dell’edizione citata si afferma che “il Brahman inaccessibile alla mente di certi passi delle Upanishad si riferisce alla mente non purificata”, e da qui se ciò sia vero o no, oppure come purificare la mente, diventa
* avendo citato Padmapada, è utile ricordare che nella vita tradizionale di Shankara si parla di lui come di un suo grande oppositore che, al termine di un confronto al quale persino gli dei vollero assistere, riconobbe la verità dell’insegnamento di Shankara e divenne il suo principale discepolo, a riprova di quale era il senso e su quali basi si muoveva allora il confronto ideologico, almeno ad un certo livello.
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materia per altre pagine e pagine, analogamente a come precedentemente per pagine e pagine si è trattato dei diversi mezzi di conoscenza, del loro significato, delle reciproche differenze e gradi di validità).
L’impressione qui è che a fronte di un soggetto estremamente chiaro e conciso, pur se immane nella sua grandiosità, nel tentativo di “percorrerlo-mapparlo” tutto lo si faccia inflazionare nella sua dimensione descrittiva, ottenendo però a parer mio una contemporanea proporzionale irrimediabile perdita della sua incommensurabile grandezza. Mi sembra avvenga un po’ come quando, volendo ancora procedere una volta “raggiunta” la vetta, si può SOLO scendere! Inoltre è chiaro che anche se la “vetta” è una, tuttavia le “vie” per scendere dopo averla raggiunta (così come quelle per salire!) sono molteplici, e pertanto soggette a reciproci molteplici confronti che comunque non potranno mai riguardare l’unicità della vetta da cui tutte dipartono! Ecco perché il cercare di seguire tale metodologia di lavoro non mi convince completamente.
Alternativa a questa, esiste però una diversa strategia per cercare di esprimere completamente la sostanza dell’Advaita Vedanta.
“Tutto è in verità l’assoluto Sé. Distinzione e non-distinzione non esistono. Come posso dire: Esso Esiste/ EssoNon esiste ? Sono pieno di meraviglia!” oppure “L’essenza e l’intero corpo del Vedanta è questa Conoscenza, questa suprema Conoscenza: che Io sono per natura il senza-forma e onnipervasivo Sé!” (rispettivamente sloka 4 e 5 dell’ Avadhuta Gita – ed. Sri Ramakrishna Math 1981). Bastano queste poche parole, estremamente chiare e palesi, dirette , sicure. Se poi non si reputa sufficiente per la comprensione l’averlo affermato così chiaramente, invece di allontanarsi dal nocciolo della faccenda tentando di portare argomenti a supporto della sua verità, si continua ritornando ancora ed ancora sulla medesima Verità centrale ,unica , totale, onnicomprensiva, ripetendola sempre uguale seppur in mille modi diversi ( “Sappi il Sé essere dappertutto,uno ed ininterrotto. Io sono il meditante ed il più alto oggetto di meditazione, Perché tu vuoi dividere l’Indivisibile?” oppure “Io sono invero immutabile ed infinito, della forma di pura Intelligenza. Io non so come o in relazione a chi gioia e dolore esistono” oppure “Io non ho attività mentale, buona o cattiva; non ho funzioni corporali, buone o cattive; non ho azione verbale, buona o cattiva. Io sono il nettare della Conoscenza, oltre ai sensi, puro” , etc…., sempre da Avadhuta Gita).
Non a caso il titolo di quest’opera significa “il Canto del Liberato”, simile al canto libero di un uccello che è uscito dalla gabbia che lo limitava. Canta per la gioia, canta e così afferma la sua libertà, canta per testimoniarla, non per descriverla o raccontarla. Chi o forse cos’è un Avadhuta viene ben descritto nella prefazione all’edizione citata dell’A.Gita : ”Sebbene essere Avadhuta implichi naturalmente la rinuncia, esso include un addizionale e persino più alto stato che non è né attaccamento né distacco, ma al di là di entrambi. Un Avadhuta non sente alcun bisogno di
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osservare qualsiasi regola, sia secolare o religiosa, Egli non cerca niente, non evita niente. Egli non ha né conoscenza né ignoranza. Avendo realizzato che egli è l’infinito Sé, egli vive in quella vivida realizzazione”.
E’ indubbio che questo testo incarna e mostra un diverso possibile approccio all’essenza della non-dualità, o meglio alla sua esposizione/divulgazione. Invece di argomentare o dimostrare sulla base dei Veda, di analisi, prove o convincimenti, semplicemente si afferma direttamente il fulcro della faccenda stessa, e lo si ripete senza mai discostarsene: ESISTE solo Brahman, e tutto, e io, e tu, e QUALSIASI altra cosa è SEMPRE e SOLO Brahman.
Questo approccio diretto che non si preoccupa di “sviluppare” il soggetto ma si accontenta di Viverne la Totalizzante Pienezza, incarna meglio secondo me ciò che Shankara stesso nella parte finale del suo commentario ai Karika di Gaudapada ha chiamato Asparsa Yoga , o Yoga del senza sostegno: La parola Asparsa-Yoga significa lo Yoga che è sempre ed in ogni aspetto libero da “sparsa”, o relazione con qualsiasi cosa, e che è della stessa natura di Brahman……Il non-dualista sa che persino coloro che vengono per litigare con lui sono, in realtà, il suo proprio sé. Perciò egli non guarda nessuno come suo oppositore (“Mandukyopanishad with Gaudapada’s Karika and Shankara’s commentary”- Sri Ramakrishna Ashrama, Mysore 1974 – IV.2 ). A questo punto sorge però spontanea la domanda sul come e perché, se tutto è così lampante, Shankara stesso senta comunque la necessità di argomentare e di “convincere” l’oppositore riguardo la validità delle proprie tesi.
E’ interessante notare come per certi aspetti del loro insegnamento i Vedantini più famosi e rappresentativi del recente passato siano stati maggiormente simili nella loro testimonianza a Dattatreya, autore dell’ Avadhuta Gita, che a Shankara, al contrario sempiterno punto di riferimento per i Vedantini più rivolti allo studio ed alla pratica “corretta” dell’Advaita, persone che hanno però lasciato ben poche tracce della propria esistenza al di fuori dell’ambito prettamente accademico-filosofico. Mentre infatti non saprei portare senza una ricerca apposita esempi specifici di quest’ultima categoria, fra i maggiori esempi dell’Advaita del novecento è facile ricordare i ben noti Ramana Maharishi e Nisargadatta Maharaj, l’uno più testimone che divulgatore della propria Realizzazione, l’altro che da umile venditore di bidi per “spiegare” il proprio stato coscienziale affermò: così disse il mio guru, io semplicemente gli ho creduto, ed ho realizzato che aveva ragione. Sembrerebbe quasi che nel ventesimo secolo si sia evidenziata maggiormente la posizione “radicale” di Dattatreya rispetto a quella “scolastica” di Shankara, sebbene poi nel suo studio e nel suo approccio si sia spesso ricaduti di fatto in una metodologia più vicina alla seconda.
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Confesso che ciò che più mi ha incuriosito ed attratto durante la preparazione di questo studio è stata proprio la consapevolezza della palese differenza di approccio nella “esternazione” della STESSA posizione Advaitica fra Shankara e Dattatreya. A tal proposito porto un ulteriore esempio:
“Questo Brahman è senza nascita, libero da sonno e sogno, senza nome né forma, sempre effulgente ed onnisciente. Niente deve essere fatto in nessun modo rispetto a Brahman” (Mandukyopanishad with Gaudapada’s Karika and Shankara’s commentary”- Sri Ramakrishna Ashrama, Mysore 1974 – III.36). Dopo questo Karika di Gaudapada, Shankara (e ne fui MOLTO contento quando entrai in contatto con la sua opera!) usa ben due pagine per elaborare, giustificare e “chiarire” il concetto espresso nelle tre righe del Karika, e mi sembra indubbio poter affermare che lo fa su di un piano prettamente analitico-mentale. Prendiamo invece i seguenti sloka: “Tu non sei nato né morirai. In nessun momento tu hai un corpo. Le scritture dichiarano in molti modi differenti il ben noto detto: Tutto è Brahman” - “Tu sei Colui che è esterno ed interno. Tu sei il propizio Uno esistente in ogni luogo in ogni tempo. Perché corri qui e lì illuso, come uno spirito immondo?” – “Unione e separazione non esistono né per te né per me. Non c’è nessun te, nessun me, né c’è questo universo. Tutto è in verità solo il Sé” (Avadhuta Gita – Sri Ramakrishna Math 1981 sl. I /13-14-15). Viene espressa in fondo la stessa sostanza del precedente Karika commentato da Shankara, però ripetendola indefinitamente, partendo da essa per tornare continuamente ad essa, muovendosi su un piano esortativo più che didattico. Dattatreya evidentemente non reputa che lo sviluppo dialettico e la spiegazione possano aumentare la forza delle sue parole, e preferisce di conseguenza ribadirle quasi ossessivamente da angolazioni leggermente diverse, insistendo sulla autoevidenza e direi quasi ovvietà (per lui, naturalmente) di quanto affermato.
Entrambe le “strategie” precedenti portano comunque alla stessa considerazione finale che TUTTO quanto di cui ci si occupa, sia prima che dopo l’eventuale Realizzazione dell’identità Atman-Brahman, esiste ed appartiene SOLO per chi ancora vive nella dualità, ed anche i diversi insegnamenti ESISTONO ed hanno valore SOLO al di fuori della loro attuazione, dato che in quel momento si realizza come TUTTO fosse illusorio, né vero né falso, né esistente né non esistente. Ciò che è diverso è il modo in cui si viene portati a tale conclusione.
La constatazione di questa differenza di approccio, assieme alla precedente riflessione riguardo i DIVERSI modi per scendere da una vetta dopo averla raggiunta,mi ha portato a considerare la possibilità che l’uomo non riesca ad essere Uomo e ALLO STESSO TEMPO Brahman, come se nell’essere Uomo, anche con la maiuscola a significare l’Uomo perfetto-realizzato, sia implicita una seppur minima “dose” di limitatezza, e quindi di dualismo, un certo “attaccamento” legato forse (perché no) ad un certo “piacere” dato dall’essere nella condizione di Uomo. Da un lato il proprio senso di limitatezza lo spinge a cercare la Completezza, l’Unità Assoluta con il Tutto, dall’altro ciò
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sembra farlo tornare ad occuparsi delle diverse forme di limitazione, molto umane, magari sublimi, magari Umane, ma pur sempre appartenenti all’ambito della Non-NonDualità.
La domanda che segue quindi è: l’Uomo realizzato, l’Uomo liberato, è ancora Uomo?
Una possibile risposta si può dare tenendo presente il significato nel buddismo della figura del Bodhisattva. Infatti quando (per esempio) Shankara “esce” dallo stato di Unità Assoluta (nel senso che, dal NOSTRO punto di vista!, si “relaziona” con il mondo fenomenico) per “mostrare il sentiero” oppure per mostrarne la sua “mancanza” (un non-sentiero è comunque una forma di sentiero), tutte le sue spiegazioni, affermazioni, confutazioni hanno un loro posto ed una loro valenza se viste nell’ottica del rapporto fra la figura del Bodhisattva e il mondo di chi Illuminato non è. Al contrario nel caso di Dattatreya o di Ramana Maharishi, quando sempre dal NOSTRO punto di vista c’è una qualche forma di relazione con il mondo fenomenico, ogni affermazione è semplicemente una testimonianza ed un’esortazione ad “aprire gli occhi”, prendendo atto di Ciò che comunque E’, senza alcuna possibilità di mantenere la benché minima scala di valori fra diversi “stati”: esiste SOLO Quello, e TUTTO il resto non esiste, né ha senso quindi occuparsene!!!
(“l’intero universo, a cominciare dal principio dell’Intelligenza Cosmica, non è a me minimamente manifesto. Come può esserci per me qualsiasi esistenza nelle caste o nei diversi stadi della vita?” oppure “il Sé certamente non diventa puro attraverso la pratica dei sei aspetti dello yoga. Certamente non è purificato dalla distruzione della mente. Certamente non è reso puro dalle istruzioni del maestro. Esso stesso è la Verità, Esso stesso è l’Illuminato” – A.Gita I/45-48).
Corollario di quanto appena detto, che per noi che stiamo da “questa” parte nella relazione con l’Uomo Realizzato risulta un po’ spiacevole e sicuramente non consolatorio, è che nel primo caso (quello del Bodhisattva) c’è spazio per l’Amore e la Compassione dei quali noi possiamo essere in qualche modo “fruitori”, mentre nel secondo caso l’Amore e la Compassione che vengono espressi sono quelli universali, forme che l’Ananda-Beatitudine (che assieme a Sat e Chit caratterizza Brahman) prende nella NOSTRA percezione. Qui non c’è più spazio per un amore “personale”, per una compassione riguardo la situazione del singolo. Qui l’Amore è la Gioia che deborda, il canto dell’Avadhuta, ed anche la Compassione è il “dispiacere” di non poter compartecipare né “aiutare” la compartecipazione di …Ciò che si sta già compartecipando, ma di cui molti non sono coscienti.
Spostando poi il confronto fra l’insieme delle posizioni Advaitiche e quello delle diverse filosofie “dualistiche”, si può notare che mentre quest’ultime in modi diversi propongono (coerentemente!!!) qualcosa di “diverso” da raggiungere, e quindi una via (in quel contesto reale!) da percorrere, al di là degli specifici insegnamenti proposti l’Advaita Vedanta ha nella sua monolitica inattaccabile Non-Dualità la sua forza e la sua “via”. Shankara la usa per confutare le tesi delle altre posizioni, ponendo le diverse contestazioni alle diverse filosofie l’una contro l’altra, per poi affermare con
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rigore che l’unica posizione difendibile è l’Advaita, immune giocoforza da simili attacchi: “Dove tutto è Uno , cosa o chi può attaccarmi?” (ma anche “a cosa o a chi posso attaccarmi?” aggiungerei io, un po’ maliziosamente).
Però la stessa monolitica inattaccabile Non-Dualità è anche per certi aspetti la “debolezza” di tale posizione, o meglio la diventa quando vogliamo (da uomini, e forse talvolta anche da Uomini!) una filosofia che ci aiuti, che tracci una via, una via che “ovviamente” vogliamo essere una via reale di Conoscenza e di Realizzazione .
Probabilmente è per venire in qualche modo incontro a tali esigenze che sono state concepite le varie forme di “liberazione graduale” che fanno parte degli insegnamenti Advaitici più “elaborati”. “Sono coloro che aspirano alla Liberazione quelli che devono ascoltare, etc…, poiché solo uno che desideri risultati finiti è qualificato per compiere i rituali relativi. Per stimolare il desiderio per la Liberazione servono la discriminazione fra cose eterne e transitorie, disinteresse per il godimento degli oggetti dei sensi e dei loro effetti qui e in futuro, calma, autocontrollo, ritiro in sé, forza, concentrazione e fede…………La meditazione sul Brahman condizionato è anch’essa una causa della Realizzazione del Brahman incondizionato, attraverso la concentrazione della mente. Quando la mente del meditante viene posta sotto controllo dalla pratica della meditazione sul Brahman condizionato, proprio quel vero Brahman incondizionato, liberato dalla sovrapposizione delle qualità limitanti, manifesta direttamente Sé Stesso. Coloro che meditano sul Brahman condizionato vanno nel mondo di Hiranyagarbha, ed ottenendo lì la realizzazione della Verità attraverso l’ascolto etc.., vengono liberati alla fine(dei tempi) assieme ad Hiranyagarbha” (Vedanta Paribhasa,op.cit., pag.221-223-224). Ho riportato i precedenti spezzoni non tanto per accennare alle modalità di liberazione graduale contemplate dal Vedanta, quanto piuttosto per testimoniare ancora una volta come la natura umana sia di fatto costretta a muoversi nell’ambito dualistico del divenire temporale non appena cerca una “via”, per sua natura temporale. Li ho però riportati anche per poter riaffermare che secondo me restano comunque tutti insegnamenti “di fatto”, che cercano un qualche appoggio e una qualche plausibilità mentale nel momento che il puro Asparsa, il SENZA SOSTEGNO,. diventa (o meglio viene percepito come) pericoloso. Ecco perché proprio all’inizio ho parlato dei vari modi in cui si può reagire alla SFIDA dell’Advaita Vedanta, e come abbiamo potuto vedere ciò è pertinente sia per chi è “fuori” ma anche per chi è “dentro” tale visione.
Spero a questo punto di essere riuscito ad inquadrare almeno superficialmente per un verso l’aspetto storico-filosofico dell’Advaita Vedanta, e per un altro alcune sue problematiche che, considerate per quello che sono senza cercare risposte definitive, possono aiutarci ad entrare meglio nei risvolti di tale filosofia, al di là del sottolinearne limiti e contraddizioni vere o presunte,
UTTO …… 11a SE
riuscendo spero a cogliere almeno un po’ di quel “sapore” che mi ha tanto attratto quando ci sono entrato in contatto io stesso le prime volte, un genere di sapore che solo le cose vive possono avere.
Penso che limitarsi a “studiare” la dottrina Advaitica sia un ottimo esercizio, ma che la vera sfida che vale la pena intraprendere sia quella di “viverla”, almeno per quanto riusciamo a fare.
La NonDualità non si può capire, raggiungere, spiegare, illustrare, discutere, tanto meno pensare o manifestare oggettivamente. Probabilmente si può solo ESSERE (la e/o nella NonDualità)……… …..ma fintanto che ci si aspetta di dover o poter aggiungere qualcosa al semplice ESSERE resterà sempre un leggero velo di dualità fra “chi” è e “che cosa” è.
Advaiticamente possiamo concludere solo così ……………………………………………….. ..…………………………………………..(silenzio)……...………………………………………………….………………………………………….., e se al posto dell’eterno silenzio del puro Essere vogliamo proprio metterci qualcosa, allora possiamo solo ribadire che qualsiasi cosa diciamo, pensiamo o facciamo è illusione, non è Reale, è solo nome e forma, è solo Maya.
La NonDualità del Brahman è la sola Esistenza (o NonEsistenza), al di là di TUTTO …… ……… ma SEMPRE ed eternamente DAPPERTUTTO!
UTTO …… 12a SE
Shivananda
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